Ognuno di noi fa parte della specie umana, ma come persona appartiene soltanto a sè stesso

Ognuno di noi fa parte della specie umana, ma come persona appartiene soltanto a sè stesso

Presentazione

Vorrei anteporre alla presentazione del mio Blog una premessa deontologica, in quanto, nonostante il desiderio di condividerlo con voi, il genere in esso trattato potrebbe non interessare, nè incuriosire, nè tantomeno divertire, alcuni miei fruitori virtuali: in tal caso li invito cordialmente a non perdere tempo e a passare oltre. Ovvero a seguirmi, dandomi la possibilità di aprire un varco, nel dibattito tra persone curiose di sapere, ma anche coscienziose e concrete. Questo Blog propone una filosofia dinamica, non accademica, incentrata sulla specificità della natura umana e dei suoi sviluppi culturali; farà spesso riferimento all'area mediterranea, ed agli influssi derivati dal coacervo di popolazioni che gravitano intorno ad essa.
La scelta di un sito per "Antropologica mente" nasce da un impegno pluriennale nella ricerca intorno a “ciò che è umano”, dal punto di vista dell’Antropologia Culturale. A mio parere, il punto di vista antropologico rappresenta anche un concreto impegno per la collettività umana: nel tracciare la mappa di un percorso mirando alla sua interezza, ogni contributo, in termini di idee e di opere, si rivela prezioso. Credo che ad ogni essere vivente sia data la possibilità di declinare la “costante cosmologica” che contraddistingue la condizione umana. A mio modo di vedere, è questo uno dei princìpi che segnano il percorso dell'essere, dall’arcaico motivo dell’Archè, a quel sacro Cerchio degli antichi saperi che, ancora e sempre, governa il viaggio degli uomini in cerca del proprio orientamento; punto di convergenza olistico per la salute del corpo e dello spirito.
Attraverso la sua specifica realtà esistenziale, ogni comunità umana trova adeguate forme di espressione nelle proprie simbologie, nei linguaggi e nei rituali, antichi ed in uso, tanto individuali quanto socialmente condivisi; molti di essi permangono nelle più sperdute società e nelle realtà più marginali dei Sud del mondo.

La sfera dell’umano implica il trattare delle sue molteplici possibilità e, per converso, dei suoi limiti. Il filo conduttore del Blog è perciò dedicato a svariati argomenti, segnalati nelle barre Etichette, ognuno dei quali fa parte di un percorso dinamico, perchè tale è la vita che esso intende rispecchiare, nella sua quotidiana complessità.
Un ideale antico, costante e profondo, mi guida in questa ricerca; lo ritrovo nelle parole dei grandi pensatori, ma anche delle umili persone, che ho conosciuto; ognuno ha, a suo modo, arricchito una parte dell’umanità, esortandola alla propria trasformazione “dentro e fuori, in alto e in basso”.
Credo che la trasformazione sia un principio evolutivo fondamentale, affinchè l’uomo possa “realizzare la propria natura” nel corso della vita.
Pablo Neruda afferma: “Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia… chi non parla e chi non conosce” .

manilimilena@gmail.com
Professionista Scienze Umane "Filosofia, Psicologia e Scienze dell'Educazione" Esp. Antropologia Culturale/Comunicaz. Efficace. Gli indirizzi mail seguenti sono momentaneamente disattivati
(milena.manili@yahoo.com Counselor) Relazionale Esistenziale Dipl. presso "Libera Università del Counseling" /Art Counselor Steineriana - Arteterapia antroposofica
I.N.F.A.P. Onlus Ist. Naz. Femminile Arti e Professioni per l'evoluzione della Persona. Presidente 2001-2013 (Dlgs 460/97 - sett.9).
(http://arteculturasocieta.blogspot.it/)

N.B.
Gli indirizzi tra parentesi sono momentaneamente disattivati


Eccomi

Eccomi
E' andata così che ho optato per il Blog ... ed archiviato. Ve lo racconto in via "Confidenziale"

domenica 5 aprile 2020

DARWIN DAY 2020

DARWIN DAY 2020 - -
Per gli appassionati di Antropologia Culturale https://www.facebook.com/Anthro.Lab/
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il lascito di Charles Darwin. Ereditarietà e mutazione genetica
- http://www.micromega.net/ La Repubblica “Con il ricordo del padre della teoria dell'evoluzione - e soprattutto del suo coraggio e della sua curiosità, la giornata vuole sottolineare e difendere i valori del pensiero razionale e della laicità, attraverso eventi pubblici per raccontare la scienza agli appassionati”. Celebra il Darwin Day, fra gli altri, il filosofo Francesco Cavalli Sforza (figlio del genetista Luigi Luca Cavalli Sforza) Studioso dei temi della razza e del razzismo da un punto di vista rigorosamente scientifico. L. L. Cavalli Sforza: La selezione naturale e il caso (la democrazia della natura) Ricordiamo Luigi Luca Cavalli Sforza, il grande genetista scomparso il 31/8/2018 all’età di 96 anni), riproponendo un suo saggio in cui spiega come nella teoria dell’evoluzione il caso la faccia da padrone, garantendo a ciascun essere vivente le stesse probabilità di progredire: una democrazia universale della natura che non ha bisogno di Dio. di Luca e Francesco Cavalli Sforza, da MicroMega Almanacco di Scienze (2009) A 150 anni dalla pubblicazione dell’Origine delle specie per selezione naturale, la teoria dell’evoluzione continua ad essere fra i temi più controversi della modernità. Non per gli scienziati, per la verità, che continuano ad arricchirla di nuove osservazioni, è la nostra stessa comprensione dei processi evolutivi. Al di fuori del mondo scientifico non si è mai sopita invece la discussione sul merito della teoria, a testimonianza dell’impatto che la rivoluzione intellettuale promossa dal grande naturalista continua ad avere sulla nostra visione del mondo. Copernico e Galileo avevano assestato un colpo mortale all’antica convinzione che faceva del nostro pianeta (e quindi di noi stessi) il centro del mondo. In termini collettivi, c’erano voluti due o trecento anni per assorbire il colpo. Darwin e Wallace hanno scalzato quanto restava dell’antico antropocentrismo: la convinzione che la specie umana occupi la posizione centrale nel mondo della vita e che la natura sia organizzata a priori, con un preciso ordine e finalità (al cui vertice troneggerebbe, beninteso, l’Uomo). Prosegue nel commento “La selezione naturale è il cuore della teoria di Darwin: non è un concetto di evidenza immediata, ed è stato frainteso, manipolato e contraffatto, in più modi di quanti valga la pena di citare, da chi ha voluto vedervi un meccanicismo deterministico che nega la libertà umana a chi se ne è fatto una bandiera per imporre e giustificare la superiorità del più forte. Il tempo ha fatto giustizia di queste mistificazioni, eppure non si può dire che la conoscenza dei meccanismi evolutivi sia diventata parte del bagaglio culturale di un adulto mediamente informato. L’evoluzione fa ancora paura: lo dimostra il tentativo di pochi anni fa di espellerla dall’insegnamento nella scuola dell’obbligo. Motivo di più per capire in che cosa consiste, visto che è la chiave migliore di cui disponiamo per comprendere lo sviluppo della vita. A partire, per l’appunto, da quel concetto di selezione naturale che ha agito come un grimaldello per aprire le porte a questa comprensione. Darwin aveva letto Malthus, ed era rimasto colpito dall’osservazione che il numero di figli generati dagli esseri viventi è praticamente sempre superiore alle risorse necessarie per permettere a tutti di vivere. È un fenomeno universale: in animali come le rane, su milioni di uova fecondate solo una minima parte di individui riescono a raggiungere l’età adulta e a riprodursi, ma anche nell’uomo, ai tempi in cui Darwin nacque come in tutta la storia precedente della nostra specie, su 5 o 6 bambini nati non più di due riuscivano a diventare adulti. Li uccidevano malattie, incidenti o la fame, e le stragi compiute dalle periodiche carestie erano nella memoria di ciascuno. In generale e in ogni specie, non vi è posto per tutti quelli che nascono. Fra quanti diventano adulti, poi, non tutti riescono a riprodursi, e alcuni hanno più figli, altri meno. È evidente che vi sono caratteri che si trasmettono dai genitori ai figli, e va da sé che chi ha più figli trasmetterà i suoi caratteri ereditari a un maggior numero di persone. Se anche i figli tendono ad avere a loro volta parecchi figli, e se lo stesso vale per i nipoti, nel corso del tempo i caratteri trasmessi dall’antenato si diffonderanno nella popolazione. Di fatto, in ogni popolazione i singoli individui hanno fecondità e mortalità diverse, per cui la composizione della popolazione cambia ad ogni generazione. Se vi sono caratteristiche ereditabili che favoriscono la capacità di sopravvivere e/o quella di generare figli, queste tenderanno a diffondersi nel corso delle generazioni. Se l’organismo di un individuo è più attrezzato, poniamo, per resistere a una malattia che imperversa nel suo ambiente di vita, è chiaro che avrà migliori possibilità di vivere e riprodursi rispetto a chi soccombe a questa malattia, e se questa sua caratteristica è trasmissibile ai figli il numero degli individui attrezzati per resistere alla malattia aumenterà nel corso del tempo, e viceversa il tipo che si ammala diminuirà. Alla fine, la popolazione potrà risultare composta solo di individui resistenti. È come se la natura automaticamente filtrasse, ad ogni generazione, tutti gli individui che nascono, e alcuni passassero più facilmente di altri attraverso il setaccio. Ma il vantaggio che permette loro di vivere e riprodursi meglio di altri vale per l’ambiente in cui nascono e crescono, non necessariamente altrove. La capacità del mio organismo di resistere a una certa malattia infettiva non mi porterà alcun beneficio in un ambiente dove l’agente infettivo è assente, anzi potrebbe essere uno svantaggio. È l’ambiente a decidere quali individui vivranno e quali no, e poiché i tipi che incontrano maggiori difficoltà tendono a sparire, di generazione in generazione in ogni specie rimangono i tipi «più adatti» all’ambiente di vita (sono i «più adatti» per definizione, appunto perché sono riusciti a crescere e riprodursi). Ma l’ambiente cambia di continuo, per cui cambiano di continuo i criteri, per così dire, con cui questa selezione viene esercitata, e di conseguenza cambiano le specie, nel corso del tempo. Questa è l’evoluzione per selezione naturale: la trasformazione automatica e inevitabile di qualunque specie nel corso del tempo, che le porta tutte a differenziarsi progressivamente in ambienti diversi, per via della maggiore sopravvivenza e fecondità dei tipi adatti a quello specifico ambiente. I milioni di specie che si sono insediate negli innumerevoli ambienti abitati dalla vita sono divenute via via diverse le une dalle altre e tendenzialmente più complesse, o almeno più efficienti, perché nel corso dell’evoluzione tendono sempre ad affermarsi gli individui meglio attrezzati per interagire con tutto ciò che hanno intorno. Al tempo di Darwin non si aveva la minima idea di come i caratteri dei genitori passassero ai figli, ma gli allevatori avevano praticato da sempre – e in modo sistematico nei secoli immediatamente precedenti – incroci mirati fra i loro animali, per ottenerne discendenze con caratteristiche utili e desiderabili: cavalli da tiro, da corsa, da caccia, da guerra, per esempio. Era una selezione artificiale che aveva portato alla creazione di razze diverse di bovi, cavalli, maiali, cani, gatti e che ispirò a Darwin l’idea di una selezione effettuata direttamente dall’ambiente naturale. Solo negli anni successivi alla pubblicazione dell’Origine delle specie un monaco boemo, Gregor Mendel, in sette anni di esperimenti semplici e geniali, quanto pazienti, avrebbe scoperto le leggi che governano l’eredità negli organismi viventi. Come accade a chi è troppo in anticipo sui suoi tempi, la sua opera fu ignorata a lungo. Una volta riscoperta, nel 1900, ne sarebbe nata la scienza dell’ereditarietà, la genetica, che nel corso del XX secolo sarebbe divenuta l’asse della biologia. Nel frattempo, la teoria di Darwin aveva scosso dalle fondamenta non solo il mondo scientifico, ma anche convinzioni assai diffuse e radicate fin dall’antichità. Se gli esseri viventi erano prosperati differenziandosi in miriadi di specie diverse, voleva dire che tutte queste specie avevano antenati comuni: l’Ottocento, in effetti, era stato punteggiato di ritrovamenti di fossili di animali e piante estremamente antichi, ma chiaramente imparentati con i loro discendenti moderni. I primi zoo cominciavano ad offrire agli abitanti delle metropoli europee la visione di animali come scimpanzè, gorilla, oranghi, così affini agli esseri umani da rendere quasi evidente agli occhi un legame di parentela. Questo era in aperta contraddizione con quanto affermava la Bibbia: che tutte le specie viventi erano state create insieme, vicino al principio del tempo, e che all’uomo era stata assegnata una dignità speciale. L’idea di essere cugini, benché lontani, di scimpanzè e macachi suscitava il disgusto dei benpensanti. Altri si fecero un’ideologia della lotta per la sopravvivenza, sostenendo il diritto «intrinseco» del più forte di vivere alle spalle del più debole. Ma la teoria di Darwin non ha mai avuto nulla a che vedere con tutto questo. La selezione naturale è un semplice fenomeno demografico: si descrive in termini di nascite, unioni riproduttive, morti. Si misura sulla fecondità e mortalità differenziale degli individui di una qualsiasi popolazione, che si tratti di patate o di batteri, di faggi o di mosche. Può bastare un minuscolo vantaggio per fare una grande differenza, magari un piccolo cambiamento, come la produzione di un certo enzima che permette di accedere a una nuova fonte di cibo. Se il tipo cambiato si riproduce dell’1 per cento in più rispetto alla media della popolazione, dopo 100 generazioni potrebbe avere rimpiazzato tutti gli altri tipi. Cosa sono 100 generazioni? Per certi batteri, un paio di giorni; per i fringuelli, basta un secolo; per gli uomini, 30 mila anni. Piccoli cambiamenti si accumulano nel corso delle generazioni. Due popolazioni di una stessa specie che vivono in completo isolamento reciproco (ad esempio perché sono stanziate su isole o continenti diversi) diverranno specie diverse su un lungo arco di tempo. Ogni specie ha un’evoluzione diversa e particolare e si differenzia progressivamente dalle altre, in funzione delle caratteristiche dell’ambiente che abita. La ricerca del XX secolo ha portato alla comprensione del materiale ereditario: si è visto che i tratti caratteristici che passano da una generazione all’altra, quelli che Mendel chiamava «elementi» e oggi chiamiamo «geni», sono prodotti a partire da un’unica lunghissima molecola di acido desossiribonucleico (dna) presente nel nucleo di ogni cellula di ogni organismo vivente. L’analisi del genoma (cioè del patrimonio ereditario, del dna) di una grande varietà di esseri viventi ha fornito la prova più inconfutabile della teoria di Darwin: tutti derivano da antenati comuni, attraverso un lungo processo di differenziazione, di cui stiamo diventando in grado non solo di ripercorrere, ma di datare le tappe. Vi sono geni comuni agli uomini come ai batteri, cui la selezione naturale ha dato una forma così perfetta da non essere più cambiati, o pochissimo, anche da un miliardo di anni a questa parte. Tutta la vita è un fenomeno solo, che ha assunto decine e centinaia di milioni di forme diverse, di cui ben oltre il 99 per cento è scomparsa col tempo. Non incontreremo mai Luca (Last Universal Common Ancestor, o ultimo antenato comune a tutti: in pratica, il primo essere vivente), sia perché è scomparso senza lasciare altra traccia che il dna dei suoi discendenti, sia perché era certamente ultramicroscopico. Ma questo non ci impedisce di avanzare nella ricostruzione del passato e del presente della vita. Darwin non poteva aver modo di capire quale fosse la causa delle innovazioni biologiche, quei tratti originali che a volte compaiono nella nuova generazione di una specie, creando differenze fra gli individui e rendendo possibile l’evoluzione, quando presentano un qualche vantaggio. Oggi sappiamo che la fonte di ogni novità nel mondo vivente è la mutazione, un cambiamento di solito minuscolo, che modifica l’ordine in cui sono disposti i componenti che formano la doppia spirale della molecola di dna (i nucleotidi). La mutazione è in pratica un errore di copia: dal momento in cui compare la prima cellula di un nuovo individuo, il dna viene copiato un numero enorme di volte (ogni volta che una cellula si divide). Benché esistano precisi meccanismi di controllo (è necessario: un genoma umano consta di oltre 3 miliardi di nucleotidi), qualche errore rimane a ogni generazione: la maggior parte di questi è irrilevante; alcuni portano problemi o malattie, o addirittura impediscono la vita; altri rarissimi portano un vantaggio e possono diffondersi con le generazioni. Per quanto ne sappiamo, sono del tutto casuali. La frequenza con cui si verificano può variare in condizioni particolari, ed è diversa in diversi punti del genoma, ma non vi è modo alcuno di prevederle. La scoperta che il dna è la sostanza responsabile dell’eredità biologica è del 1944. La sua struttura chimica viene descritta nel 1953. Negli stessi anni nasce la biologia molecolare, poi la genetica molecolare. Nel dopoguerra diventa possibile descrivere la struttura delle proteine, negli anni Ottanta leggere l’ordine dei nucleotidi nel dna, fino al sequenziamento dell’intero genoma umano al principio del nostro secolo. Già dagli anni Cinquanta, l’analisi chimica delle proteine e più avanti del dna, accoppiata alla statistica e all’informatica, permette di cominciare a misurare le differenze genetiche fra gli individui di una stessa popolazione e di diverse popolazioni. Per gli esseri umani la ricerca gode del vantaggio di potersi in qualche misura estendere al passato, grazie alle testimonianze di varia natura lasciate dalla nostra specie, dai fossili agli archivi storici. Le nuove scoperte confermano ed estendono quanto Darwin aveva intuito dalla semplice osservazione della natura e Mendel aveva scoperto con l’esperimento, ma rivelano anche ciò che loro non potevano vedere. Si scopre che buona parte del patrimonio ereditario è all’apparenza del tutto inutile, forse materiale biologico abbandonato nel corso dell’evoluzione, un avanzo di cui gli organismi non sono riusciti a liberarsi, o parassiti innocui che si fanno trasmettere senza nulla dare in cambio. Si scopre che solo una piccola parte delle mutazioni hanno un valore adattativo, per cui sono promosse dalla selezione naturale (o bocciate nel caso contrario): la maggior parte è neutra, non ha alcun effetto quantificabile su sopravvivenza ed evoluzione, per cui il loro destino è soggetto alla semplice azione del caso. Per fare un semplice esempio: il colore dei capelli o degli occhi non ha un effetto fondamentale su sopravvivenza ed evoluzione, come ne hanno invece mutazioni genetiche che permettano di sviluppare una vista acuta, poniamo, o che al contrario la indeboliscano. Il colore dei capelli o degli occhi non è del tutto privo di valore selettivo, perché può essere soggetto a selezione sessuale: sappiamo che in diverse condizioni e presso popoli diversi certe colorazioni – occhi azzurri o verdi, magari, capelli biondi o rossi – sono particolarmente apprezzate, il che può essere di vantaggio ai loro portatori, ma questo non significa che occhi e capelli castani o neri rappresentino un vero vantaggio o svantaggio a livello selettivo nella vita reale. È facile rendersi conto delle implicazioni di questo fenomeno se riflettiamo sul modo in cui l’uomo moderno – l’unica specie umana rimasta sul pianeta – si dev’essere diffuso al mondo intero, a partire da una piccola tribù di poche centinaia o migliaia di persone che intorno a centomila anni fa viveva in Africa orientale. Il nucleo originario è aumentato di numero e alcuni gruppi se ne sono staccati per colonizzare nuove zone. Anche i nuovi insediamenti hanno avuto un buon successo riproduttivo e sono cresciuti, fino a che non se ne sono staccati altri gruppi per esplorare zone nuove. Il processo è proseguito per circa 50 mila anni, fino a quando, verso i 10 mila anni fa, l’espansione ha raggiunto tutti i continenti (tranne l’Antartide). Il numero dei colonizzatori nel frattempo era salito, da qualche migliaio a qualche milione di individui. Nei 10 mila anni successivi, grazie all’invenzione di agricoltura e allevamento, sarebbe passato a qualche miliardo. Ciascuna delle 5-6 mila popolazioni che abitano oggi il mondo ha però avuto origine da un numero ristretto di fondatori, la cui varietà genetica era per forza di cose limitata rispetto alla varietà genetica del gruppo più ampio che si erano lasciati alle spalle. Fra i loro discendenti – e le dimensioni di una tribù possono passare da qualche migliaio a qualche milione nel corso dei secoli – sono rimasti solo i geni trasmessi dai progenitori, a parte le novità occasionali introdotte dalla mutazione e a parte quelle portate dagli immigranti. Fino a pochi secoli fa la maggior parte delle popolazioni del mondo è vissuta in isolamento dalle altre, con scarsi scambi migratori. Per un fenomeno che è facile verificare statisticamente, in una comunità sostanzialmente chiusa le caratteristiche genetiche tendono a divenire uniformi nel corso del tempo, per ragioni del tutto casuali, per cui questa comunità si differenzia progressivamente da quelle vicine, se non vi è flusso di individui e di scambi matrimoniali fra loro. Tecnicamente, questo fenomeno è conosciuto come drift, o deriva genetica casuale, e si è rivelato essere un altro importante fattore evolutivo, come del resto lo è la migrazione, accanto a mutazione e selezione naturale. Curiosamente, ci si rende conto che la grande diversità di adattamenti che colpì Darwin nella sua visita alle isole Galapagos, e che contribuì a dare forma alla teoria della selezione naturale, si spiega meglio tenendo conto anche dell’incidenza del drift. Le misure più recenti dell’incidenza reciproca di drift e selezione naturale assegnano, per le popolazioni umane, l’80 per cento al drift e al massimo 20 per cento alla selezione, secondo misure pubblicate di recente in collaborazione da due laboratori di genetica umana di Stanford. All’interno di ogni singola popolazione umana, e in diretto rapporto con il maggiore o minore grado di isolamento in cui ciascuna è vissuta rispetto alle altre, la variazione è stata largamente determinata dal drift: si è quindi sviluppata su base casuale. Questo non è sorprendente, perché siamo una specie molto giovane, che è appena comparsa sul palcoscenico della vita. L’umanità odierna è in sostanza un’unica popolazione, su cui la selezione naturale non ha avuto il tempo di agire a sufficienza da differenziare razze o sottospecie diverse. Le differenze fra noi sono assai modeste, e sono dovute in preponderanza alla semplice azione del caso. Queste recenti scoperte hanno grandemente arricchito la teoria dell’evoluzione. Nel 1968, un teorema di Motoo Kimura dimostra che, con qualche precisazione supplementare, il tasso di evoluzione molecolare non è molto diverso dal tasso di mutazione. La selezione naturale rimane il filtro fondamentale che ogni novità deve superare, ma il caso ha fatto irruzione sulla scena. La mutazione è casuale, la deriva genetica è casuale, ed è casuale anche un altro fondamentale fattore evolutivo, la ricombinazione, un fenomeno per cui il genoma paterno e materno si scambiano dei pezzi, prima di dare origine alle cellule riproduttive, da cui potrà nascere un nuovo individuo. Il caso genera effetti del tutto improbabili. È nella sua natura – viene da dire – tirare scherzi. Così si arriva in effetti a noi stessi, alla nostra specie come ad ogni altra specie vivente e vissuta. L’improvvisa irruzione del caso sulla scena della vita ha creato un disagio anche superiore all’idea di essere parenti stretti delle scimmie. Ma bisogna capire due cose importanti. Prima di tutto, cosa si intende per «caso»: la somma di una quantità di eventi troppo numerosi o troppo poco visibili per potere essere descritti singolarmente, come quando lanciamo in aria una moneta senza sapere se uscirà testa o croce. Poi, bisogna rendersi conto dell’estremo rigore del caso sui grandi numeri: se tiro una moneta dieci volte, potrò anche avere 10 teste o 10 croci; ma se la tiro 100 mila volte, il risultato sarà comunque molto vicino al 50 per cento di teste e 50 per cento di croci, senza che mai si possa predire il risultato del singolo lancio. A ben vedere, la preponderanza del caso porta possibilità innumerevoli a ciascun essere vivente. È come se ogni individuo godesse delle stesse probabilità di progredire: una democrazia universale della natura, che forse tende anche a estendere la durata della vita di tutte le specie e di tutti gli individui. Ad ogni generazione, l’ambiente vaglia chi è in grado di vivere e chi no, poi con la nuova generazione si rimescolano di nuovo le carte. Chi ha convinzioni religiose ha spesso difficoltà con i fenomeni evolutivi, e non ama l’idea che nella vita si dispieghi la potenza del caso. Questo modello non richiede la presenza di un Dio, ma bisogna riconoscere che se fosse opera di un’intelligenza suprema non si potrebbe che restarne ammirati. Questa universale democrazia della natura aiuta l’ospite a difendersi dal parassita in modi nuovi, ma aiuta anche il parassita ad attaccare con nuove strategie. Favorisce quindi sia l’uno sia l’altro, e in questo modo dà migliori garanzie che tutti e due, alla lunga, sopravvivano. Migliorano così non solo le probabilità di sopravvivenza di tutti gli esseri viventi, ma anche quelle che almeno una parte importante della vita continui pure in caso di grandi catastrofi, come l’arrivo di un grande meteorite che trasforma il clima della Terra, già accaduto più volte in passato, o l’uso, che speriamo non avvenga mai, di armi nucleari molto potenti prodotte da uno di questi organismi viventi”. L. L. Cavalli Sforza: La selezione naturale e il caso (3 settembre 2018)

ANTROPOLOGIA della SALUTE - Premessa - Indice

ANTROPOLOGIA della SALUTE  /  Premessa / INDICE . . . 
Premessa 
Questa personale argomentazione nasce dall’intento di riesaminare la funzione dell’Antropologia Culturale per la società e, nel caso specifico, per la salute umana, senza la quale una società non esisterebbe. Traggo spunto dagli articoli di alcuni colleghi, che afferiscono alla domanda sulla funzione delle Discipline Antropologiche fuori dal contesto accademico, ed in situazioni di emergenza (come la pandemia da coronavirus, ancora in corso).

INDICE: (1) Famiglia e società: - Il confinamento nello spazio abitativo come “proprietà invalicabile” - Uomo-territorio-ambiente. Immaginazione concreta di altri mondi possibili (2) La funzione euristica e critica delle Discipline Antropologiche (3) Per un approccio multidisciplinare alla salute e alla malattia nella società interculturale (4) Salute e malattia in prospettiva Etno-Antropologica (5) Un cenno autobiografico. Parte 1a - Parte 2a (6) Riflessioni conclusive . Milena Manili – Marzo 2020 .

ANTROPOSALUTE (1) Famiglia e Società

ANTROPOLOGIA della SALUTE (1) . . Famiglia e società: il confinamento nello spazio abitativo come “proprietà invalicabile”. Uno degli interventi è un interessante quadro comparativo tra l'approccio culturale degli italiani, rispetto a quello degli asiatici: il prof. P. Vereni pone in evidenza la loro sostanziale diversità di approccio di fronte all'immane tragedia, a partire dall'inquadramento spazio-temporale del problema (il diktat governativo “restate a casa!), analizzandolo brevemente secondo due punti di osservazione “culturalmente” differenti, che attribuiscono significati personali e sociali di una certa portata divulgativa per l’Antropologia Culturale. Secondo P. Vereni l'antropologia è chiamata ad "occupare una porzione significativa del senso comune, chè se non sappiamo portare nella sfera pubblica le nostre competenze sul rito, la morte, il pericolo, la purezza, l’amicizia, il nemico, il capro espiatorio, il dovere, la libertà individuale, il potere e molti altri segni il nostro sapere, per quanto ci sia caro, conta ben poco”. Aggiungo: purchè la concessione al sociale non si ripercuota sullo statuto epistemologico della disciplina, vanificandola più di quanto già non lo sia, nei princìpi e nel metodo. Link P. Vereni: "Cosa c’entra l’antropologia con il coronavirus" https://www.facebook.com/723204971/posts/10159591076204972/ Il mio modesto contributo in ANTROPOLOGIA della SALUTE sarà quello di riconsiderare il ruolo dell'antropologo nella prospettiva di una nuova ricerca di senso e di status, nei confronti di alcuni temi tanto dibattuti in antropologia ed inevitabilmente attuali. Uno di questi è la famiglia che, dal modello nucleare in poi, ha attraversato tutte le configurazioni possibili ed oggi, nella tragica situazione italiana, si ritrova quanto mai “dissociata” ma anche, per forza di cose, parimenti impegnata nello sforzo di ristrutturazione delle relazioni coniugali e delle reti parentali, dei sistemi educativi e quant’altro. A mio modesto parere, la permanenza “obbligata” nello spazio rassicurante della propria casa rappresenta sia un’opportunità interna che una costrizione esterna. Da questo fenomeno, apparentemente contraddittorio, sembra emergere un nuovo rituale che minimizza i due estremi del problema: “il confinamento nello spazio abitativo come proprietà invalicabile”. Dal mio modesto punto di vista, l'approccio della famiglia italiana alla situazione pandemica trova un’opportunità di ri-definirsi, oltre che nella tattica dell’isolamento, anche nella parabola del capro espiatorio (morale del sospetto) in cui l’Italia si racconta: - Un baluardo alla disamina oggettiva della situazione politica, ma anche - Una narrazione significativa della “democrazia incompiuta” che guarda alla politica come mezzo più che come fine - Una leadership svuotata della propria capacità di "riorganizzazione delle competenze chiave" socio-politiche, economiche, istituzionali. Inutile qui indagare da quale parte stia la colpa; questo è il momento meno opportuno per recriminare. La tutela del proprio habitat rassicura l'Italiano medio sulla conservazione della propria cerchia famigliare. D’altro lato, il disappunto di doversi affidare ai decisori istituzionali (sanitari, difesa e protezione civile) sembra esimerlo dalla volontà di una "scelta strategica" di più alto profilo, che metta in gioco il proprio nucleo famigliare a beneficio di una collettività più ampia (ed, in alcuni contesti, più malata, o più esposta al contagio). Per più aspetti, questo atteggiamento all'italiana dovrà intendersi come un approccio culturale prevalentemente soggettivistico, piuttosto che relazionale, e niente affatto sistemico. Succede così che, dal vertice fino alle periferie della Nazione, le strategie non si combinano: ne emerge un’Identità nazionale inefficace, sia sul piano dell’agire socio-politico, quanto sul piano intellettuale (epistemologico), che riguarda il contributo delle discipline cointeressate. Uomo-territorio-ambiente. Immaginazione concreta di altri mondi possibili. Così si esprime l’antropologo F. DEI: "Anche il classico tema antropologico della percezione del rischio e delle sue basi culturali è mobilitato: con complessi rapporti tra pareri scientifici (peraltro spesso discordanti), opinione pubblica, prese di posizione politica, senso comune. All’incrocio fra questi diversi piani si determinano le nuove percezioni di purezza e pericolo, accompagnate da giudizi morali e da fenomeni di stigmatizzazione etica (Guida OMS contro lo stigma sociale: Il tema dell’untore). Più in generale, poi, il contagio in corso porta a interrogarsi sul nesso tra la sua origine e diffusione, e i grandi modelli di sviluppo e stili di vita contemporanei: il legame tra le EIDS zoonotiche e la distruzione dei sistemi ambientali, l’aumento demografico, la chiusura delle frontiere nazionali, la “territorializzazione” dell’esistenza, mostrano da un lato quanto a fondo la globalizzazione influisca sulla nostra esistenza; dall’altro, invitano a pensare se e quanto potremmo farne a meno. Aprono insomma una immaginazione concreta di altri mondi possibili". Link Fabio Dei - "Antropologia e contagio da coronavirus". Fare antropologia. Dibattito Fb. http://fareantropologia.cfs.unipi.it/notizie/2020/03/1421/ Milena Manili - Antropologia della salute - Marzo 2020

ANTROPOSALUTE (2) DEA Funzione Euristica e Critica

ANTROPOLOGIA della SALUTE (2) La funzione euristica e critica delle Discipline Antropologiche "In Aristotele che, fin dal IV secolo a.C., nella sua Etica a Nicomaco, aveva designato con la parola -Anthropologos- colui che è interessato ai fatti dell’uomo, tutte queste discipline sono considerate secondo un approccio trasversale, ossia appunto interdisciplinare, giacchè si interessano ai fatti dell’uomo da punti di vista diversi ma convergenti. Quindi una simile ricerca non può che seguire il “filo rosso” della storia (testimone dei tempi), strada tracciata per capire il presente, ricostruendo il passato. Da questo punto di vista, pertanto, ai fini euristici, la ricerca storica sulle pandemie, attraverso i contributi di discipline tanto diverse, può rivelarsi straordinariamente feconda". “Antropologia della salute. AAVV.” 2012. Ed Altervista. Rivista scientifica per il benessere dell'Uomo e della Natura. Antropologia come critica Culturale. Milena Manili - Antropologia della salute - Marzo 2020

ANTROPOSALUTE (3) Approccio Multidisciplinare

ANTROPOLOGIA della SALUTE (3) Per un approccio multidisciplinare alla salute ed alla malattia nella Società Interculturale Non ho nulla contro la “filosofia del senso comune” che domina l’attuale scenario sociale ed il mondo dell’informazione, con i suoi pregi e difetti; non posso neanche negare la funzione omologante del senso comune in una prassi educativa afferente al pensiero logico. Tuttavia ritengo che, quando ci si espone nei termini di una pratica professionale come quella socio-antropologica, attingere al senso comune come unico sistema culturale di riferimento, rischi una colonizzazione delle coscienze, ed una ricaduta nel concetto di habitus, se non una estremizzazione culturale. L’habitus è un dato sociologico che implica comportamenti tipici di una cultura i quali, in concomitanza col fenomeno migratorio, al di fuori delle strutture sociali che li hanno generati, possono assumere ulteriori significati simbolici, e che si impongono allo sguardo, non già come semplici fatti, ma come fenomeni trattabili, ovvero permeabili ad ulteriori sollecitazioni, per la sopravvivenza stessa dei soggetti che ne sono portatori. Credo dunque che, nella pratica professionale dell’Antropologia Culturale e delle altre Scienze Umane, negoziare sul senso comune sia appena un espediente fine a sé stesso, e che difficilmente possa restituire a tali discipline la loro effettiva funzione critica. Superato questo empasse, vi invito a riflettere sul tema, non proprio nuovo, della opportunità di un approccio multidisciplinare alla salute e alla malattia, che non escluda la Cultura come paradigma interpretativo dell’agire sociale. Dovremmo, una volta per tutte, riconoscere che la “Nuova alleanza” tra le Scienze Umane, le Scienze dello Sviluppo e le Neuroscienze si sia resa “storicamente” necessaria proprio a questo scopo, per poter ri-definire la questione almeno sui due piani complementari della “interpretazione teorica” e dell’ “intervento pratico”, in una prospettiva olistica (ma anche complessa e coerente) dell’uomo, nel rispetto del suo benessere psico-fisico, così come della sua necessità identitaria. Questo assunto è diventato urgente nella misura in cui, come ben sappiamo, la salute umana esprime l’unica dimensione universalmente esperibile di equilibrio tra uomo-società-ambiente. La salute umana è dunque una questione di vitale importanza per la persona in una dimensione sempre più ampia e complessa, che non può prescindere dalla vivibilità della biosfera. Le collettività coinvolte nelle pandemie sono diversificate, spesso itineranti, migranti, o “fuori luogo”, e sommariamente “dis-adattate”. In particolare, il trattamento degli stranieri non integrati richiederà non solo un antidoto biomedico ma, come emerge dalla situazione attuale, anche una sorta di Medicina interculturale, rispettosa delle diverse dinamiche esistenziali. Come si suol dire, “la Cultura è stata “sfrattata” dal “Regno dell’analisi patologica della biomedicina”. Dopo essermi stancata di ascoltare e leggere ogni genere di congetture contraddittorie attraverso i principali canali di informazione, istituzionale e sociale, sento ora l’esigenza di esprimere una mia personale riflessione, prendendo spunto da un aneddoto. Un mio amico africano, aspirante medico, marito e padre stabilitosi in Calabria, apparentemente ben integrato, ha “postato” questo commento: “Voglio tornare alla normalità; prometto che sarò più umano“. L’ho trovato emblematico di una situazione di isolamento “diversamente comune”, che segnala una verità “altra”. In una società multietnica, la reazione soggettiva a determinate malattie va riletta in chiave antropologica, prima ancora che biomedica o psichiatrica. Non è un caso che le “epidemie della globalizzazione” si stiano diffondendo in una società ad alto indice migratorio, come quella in cui attualmente viviamo. Non perché i migranti o gli autoctoni o la loro coesistenza ne siano necessariamente la causa, ma perché nessuno tra di essi resti escluso dalla rappresentazione del problema o della sua possibile soluzione. Una collettività plurale non può che fondare i suoi criteri di convivenza sullo stare bene, avere la possibilità e gli strumenti per poter elaborare insieme determinate esperienze nel rispetto delle diverse specificità culturali. Le pratiche terapeutiche dovrebbero essere diversificate, nel rispetto di quelle differenziazioni, etniche e culturali, che richiedono al medico soluzioni terapeutiche “alternative” a quelle biomediche. Milena Manili - Antropologia della salute - Marzo 2020

ANTROPOSALUTE (4) Prospettiva Etno Antropologica

ANTROPOLOGIA della SALUTE (4) Salute e malattia in prospettiva Etno-Antropologica . . Da quest’ultimo punto di vista, assolutamente oggettivo, è evidente che il migrante può non possedere determinate difese immunitarie, ma non rendersene conto, e pretendere prestazioni di cura “tradizionali”. Può attivare una condotta derivata dalla tradizione culturale cui appartiene, fraintendere situazioni ed atteggiamenti altrui perché non ne comprende il significato e la portata, rischiare di essere a sua volta incompreso nelle proprie aspettative ed esigenze terapeutiche. Il migrante, prima ancora di essere portatore o veicolo di una malattia è una persona che ha incorporato una propria struttura di pensiero dominante sulle proprie facoltà percettive e sulla propria capacità di resilienza. La situazione è ancora più problematica per i non residenti, gli apolidi e per gli stranieri costretti nei Centri Accoglienza: talora disinformati, “straniati” dal sentire comune e dalla collettività più ampia, essi sono, evidentemente, meno consapevoli delle regole imposte in casi di emergenza come quello attuale, ed, eventualmente, vogliono ribellarsi a tali regole, senza coglierne l’efficacia. E’ qui che l’Antropologia viene chiamata in causa, nei suoi paradigmi essenziali, nelle sue derivazioni disciplinari, nelle sue molteplici applicazioni, formali ed informali, pratiche e mediche. Sul terreno antropologico si dibatte lo studio dello Stile di vita, della sua rappresentazione delle condizioni di salute, calamità, malessere e malattia, del rapporto interpersonale medico-paziente, delle nuove sfere di significazione del reale nate dall'incontro terapeutico. In Antropologia è emerso in primo piano il tema della “incorporazione” delle specificità ambientali e relazionali: punto di osservazione e di ricerca etnografica non trascurabile, in quanto dimostra che, sia dal punto di vista culturale (cioè in base ad abitudini sociali, a forme di educazione famigliare e gruppale) che dal punto di vista scientifico (delle Medicine), il malessere fisico ed il disagio psicologico si ripercuotono in misura rilevabile sul sistema unitario della salute (psico-fisica) dell’uomo. Le esperienze sensoriali, così come le percezioni di fastidio, sofferenza, dolore, isolamento, condividono parzialmente le stesse basi neurali del cervello umano, in quanto funzionali all’adattamento socio-cognitivo dell’uomo. La percezione del dolore e delle sue sfumature emotive, come ad esempio un prolungato stato di allerta, attivano reazioni fisiologiche coinvolte nel sistema immunitario. Le loro connessioni corticali incidono sulle condizioni di stabilità, di evoluzione e di sviluppo, sia nel singolo individuo, che nella storia filogenetica delle collettività umane sottoposte a condizioni avverse. La cultura autoctona, di cui il migrante è la vivente rappresentazione, prevarica in larga misura sull’incorporazione delle nuove condizioni di vita ma, alla stregua di un Testo in via di rielaborazione, la cultura nativa può essere riletta e reinterpretata nella reciprocità dei linguaggi, nella plasticità delle relazioni umane, alla luce di modelli culturali risvegliati e resi tuttavia dinamici da questa "contaminazione”. Milena Manili - Antropologia della salute - Marzo 2020

ANTROPOSALUTE (5) Cenno Autobiografico 1.

ANTROPOLOGIA della SALUTE. (5) Un cenno autobiografico (parte 1a) . . Permettetemi ora di fare un cenno autobiografico, per chiarire alcune motivazioni personali che sono alla base di questo mio intervento (che si compone una Premessa e Sei Paragrafi). La mia originaria Laurea in Filosofia, alla Sapienza di Roma, si è orientata ad una professionalità socio-antropologica sotto la guida iniziale dell'antropologa Ida Magli (scomparsa nel 2016). Fu lei fra i primi antropologi ad applicare allo studio della Società Europea il "Modello culturale" messo a punto da Franz Boas ed Alfred Kroeber. Modello che, negli anni '70, la studiosa reinterpretava, mediante l'analisi di quei particolari processi (psicologici e storici), che sono all’origine degli stereotipi “di genere" e “di culto", da cui noi sessantottini(e) ci sentivamo particolarmente coinvolti. D’altra parte, però, gli strascichi di quel lungo periodo di lotte e di ripensamenti ideologici ha dato luogo ad una scissione degli intellettuali radicali dal resto della società, avviando delle dinamiche socio-politiche “più aperte” sui fenomeni culturali epocali, ma “più chiuse” nei propri assunti epistemologici. La Magli, a partire dagli anni ’80, ha sempre più focalizzato i suoi interessi speculativi sui separatismi nei confronti dell’Unione Europea, dell’Islam, del Femminismo. Come molti altri Antropologi, si è resa interprete di tutte le contraddizioni penetrate nel pensiero politico, etico e scientifico occidentale. Molti fenomeni di contestazione del sistema vigente all’epoca erano già ben presenti nelle turbolenze delle sedi di Lettere e Filosofia, e di Giurisprudenza, all’Ateneo di Via De Lollis (quartiere San Lorenzo di Roma), così come lo erano stati, dal ’68 in poi, nei Liceo del centro e specialmente presso il Liceo Cavour di Roma, al Colosseo, che io frequentavo e da cui muovevo le prime forme di consapevolezza, non solo politica. Fenomeni che si sono manifestati nella loro reale portata e significazione storica solo dopo un paio di decenni (Mario Capanna scriverà “Lettera a mio figlio sul ‘68” nel 1988). In realtà la mia esperienza formativa in Filosofia, (peraltro molto malvista in quegli anni, parimenti a tutte le forme d’Arte al femminile), ha rafforzato quella mia tendenza, quasi ossessiva, alla ricerca di Paradigmi Antropologici più aderenti allo Studio dei Linguaggi e delle Rappresentazioni simboliche, in virtù dei quali ho voluto attingere a piene mani ad altri ambiti disciplinari, afferenti all’Antropologia Culturale, come la Filosofia dei Linguaggi, la Logica, la Psicologia dello sviluppo, la Comunicazione di massa, la Storia dell’Arte e l’Estetica. Mi sono nutrita dei principi e delle motivazioni che solo i migliori docenti dell'Ateneo romano potessero darmi. Credo non ci sia mai stata nella storia una concentrazione così alchemica di “sapienti” alla Sapienza. Mi sono laureata nell’83, con caparbietà e abnegazione, in quanto ero già lavoratrice, moglie e madre, pendolare, già trasferita in Calabria. Successivamente alla Laurea, ho intrapreso, di anno in anno, alcuni Masters che ho conseguito con successo, stimolata anche dall’avvio di quella che ritenevo potesse diventare "una carriera universitaria", in qualità di docente, e che questa potesse avvalersi delle mie ulteriori specializzazioni, come spiegherò in seguito. Residente in Calabria dal 1980, per un ventennio ho effettuato svariati incarichi a Progetto, in ambito Pubblico e Privato, per condurre attività di Formazione socio-psico-antropologica presso Enti locali. Alcuni di questi incarichi si svolgevano in Comunità e Carcere minorile, a seguito dei quali, al volgere del Nuovo Millennio, ho scritto il Testo “Percorsi dell’esclusione sociale”, (in riferimento alla Legge-Quadro 328/2000): una testimonianza della mia esperienza come Operatrice qualificata nell'Area Formazione, nelle Comunità calabresi, compresi Istituti di Detenzione e Case famiglia, Centri infanzia e famiglia dl comprensorio. Durante il mio percorso ho attraversato molte tappe lavorative alterne, non tutte vantaggiose, che, nel complesso, mi hanno però restituito il senso e la necessità di una “apertura multidisciplinare”. Purtroppo questa mia ricerca di connessione, non virtuale ma reale, non ha trovato soddisfazione nel ristretto ambito accademico in cui, successivamente, ho iniziato ad esercitare quella, che, da contratto, veniva definita “prestazione d’opera intellettuale”. Umanista e Filosofa, venivo proiettata in ambito Medico all’U.M.G. di Catanzaro, in quanto vincitrice di Pubblico Bando.

ANTROPOSALUTE (5) Cenno Autobiografico 2

ANTROPOLOGIA della SALUTE (5) Un cenno autobiografico (parte 2a) . Nel 1999-2000 iniziavo la mia Docenza a Contratto, a rinnovo triennale fiduciario. In essa fungevo anche da “apripista” del primo Corso Integrato di Antropologia e Scienze Umane, presso la Facoltà di Medicina dell’Università Magna Graecia, svolgendo meritoriamente tale incarico dal 2000 al 2008, a Catanzaro, inizialmente nella Sede di San Brunone di Colonia. Dopo qualche tempo dal trasferimento della Facoltà al nuovo Edificio di Germaneto (Campus Universitario) il mio esimio alto Referente accademico, Psich. Prof Amato Amati, avendo concluso il proprio mandato, tornò in patria, credo a Napoli. Io continuavo, non so più se per follia o per la mia incurabile ingenuità, a perseguire un fantomatico Progetto Accademico, che riguardava il Polo Didattico Calabrese di Umanizzazione della Medicina. Il Progetto fu proposto durante un breve incontro tra docenti, in presenza del Rettore S. Venuta, nel corso della Mostra Archeologica “Magna Graecia, Archeologia di un Sapere” (2005) organizzata dalla U.M.G., a cura del Prof. S. Settis, al Complesso Monumentale San Giovanni di Catanzaro. In seguito, preparato un Abstract, avevo preso la mia iniziativa nel contattare alcuni referenti di chiara fama da me conosciuti in altri ambiti: medici e psichiatri, come Alessandro Meluzzi (spesso confinato in un eremo), il compianto prof. L. De Marchi (già dedito ai pensieri sulla morte), il compianto Prof. V. Masini Direttore di PRE.POS. (Prevenire Possibile, Scuola di Counseling Relazionale Transteorico) con Sedi in Toscana, dove avrei conseguito il titolo nel 2011 . Ho proseguito comunque nella mia convinzione, avendo già investito gran parte delle mie energie psico-fisiche (e quelle economiche della mia famiglia, di cui ancora la ringrazio). A metà strada dal primo incarico, la mia docenza accademica (semestrale) di più materie (vincitrice di Bando per ulteriori 3 anni) è stata decurtata da un nuovo Regolamento, in base al quale potevo insegnare solo una delle Scienze Umane, a mia scelta. Ho scelto Antropologia (BIO/08, 2 CFU). Contemporaneamente partecipavo a Convegni e Gruppi di Studio, anche presso la Prefettura di Catanzaro, su tematiche di Welfare, Antropologia medica e Linee di intervento transculturali. Purtroppo la mia docenza universitaria, per la quale ho investito fatica e denaro per perfezionarmi nell’Area Disciplinare suindicata, è stata poi “disattivata”, inspiegabilmente (o forse no) ed in modo del tutto informale. Alla fine di un lungo periodo di discreta sofferenza per l’accaduto, ricevevo un invito del Prof De Franciscis, a partecipare come uditore al FORUM Migrantes “From home to home”. La gestione integrata del fenomeno migratorio globale. Seguito dal Workshop sugli aspetti psicologici dell’integrazione, al Campus Universitario di Germaneto, 2011. Il mio mandato come docente a contratto, vincitrice di 2 Bandi pubblici per titoli e meriti, vincitrice del terzo Bando per la sola Antropologia, si è conclusa, al settimo anno accademico (2007-2008) senza alcun preavviso. Ciò avvenne appena dopo l’intervento dei Proff Tullio Seppilli, Guido Giarelli e P. De Fazio, al Convegno del C.R.I.S.P. presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro. Alla mia lettera di richiesta degli Atti, inviata tramite Studio Legale agli Uffici Amministrativi ed alla Segreteria Didattica dell’Ateneo non ho avuto mai alcuna risposta; mi è stato consigliato di non insistere. Un breve cenno storico sull’Università Magna Graecia di quegli anni: Essendo deceduto nel 2007 il Rettore S. Venuta, a Maggio di quell’anno viene eletto il nuovo Rettore F.S. Costanzo. In seguito, la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’U.M.G. di Catanzaro adotta il nuovo modello organizzativo L. 240/2010, diventando nel 2011 Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, col nuovo Rettore A. Quattrone, al quale si avvicenda, nel 2017, il Rettore successivo ed attuale, G. De Sarro, in carica, credo, fino al 2023. Milena Manili - Antropologia della salute - Marzo 2020

ANTROPOLOGIA DELLA SALUTE- Riflessioni conclusive

ANTROPOLOGIA della SALUTE. (6) Riflessioni conclusive
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Di fronte ad ogni esperienza, ho osato il tutto per tutto, nonostante i momenti di sconforto in cui credevo di non essere all’altezza della situazione. D’altra parte, come afferma una collega, “Mi consolo dicendomi che se non ti senti stupida durante la strada, forse non stai viaggiando”. A posteriori, posso affermare che, evidentemente, non ho avuto le aderenze giuste. Ma anche, data la mia ingenuità, e fiducia nella legalità, non ho affinato le strategie necessarie per realizzare l’auspicato e fantomatico Polo Didattico Calabrese di Umanizzazione della Medicina all’ Università Magna Graecia di Catanzaro. Non so se qualcun altro lo abbia poi realizzato e, sicuramente con congiunti, collaboratori ed intermediari. Non c’è storia, ma se c’è non è più di mio interesse. Occasionalmente, però, torno in Dipartimento come uditore di alcuni Convegni e con mia soddisfazione alcuni ex colleghi ancora in carica mi salutano con tanto di rispetto, che è la cosa più importante. La necessità della stima altrui e dell’autostima è il gradino più alto nella “scala dei bisogni” di A. Maslow Recentemente, e ne sono felice, ho rintracciato Enza Piraino, cara e stimata Responsabile dell'Ist. di Logopedia, che conserva il mio breve Saggio, mentre io non ce l’ho (Pedagogia e didattica, Filosofia e teoria dei Linguaggi, poi sostituita da glottologia !?). Ogni tanto mi è capitato di incontrare qualche giovane medico che ricorda di avermi avuto come docente di Antropologia, Sociologia, etc.. Io ovviamente non li riconosco ma loro si. Qualcuno si ripropone di volermi curare se ne ho bisogno; io “faccio corna” e ringrazio.

Esperienze sul campo? In Calabria. In Europa solo viaggi con la famiglia, e tante profonde riflessioni sugli stili di vita e sulle nostre diverse capacità di adattamento.

Ricerche?: Fin dall’inizio, mi fu sconsigliato il Dottorato: il patologo allora nominato come mio supervisore mi disse “per limiti di età” (50, nel 2003). Mi convinco sempre più che gli Antropologi siano una razza in estinzione! Dal 2008 al 2011, per superare lo stress post-traumatico della vicenda vissuta all’Università U.M.G. (per altri aspetti una straordinaria esperienza!), mi iscrivo, come ho già accennato, al Corso di Counseling Relazionale Integrato. Nel frattempo, dopo i vari Concorsi a Cattedra per la Scuola Secondaria Superiore (Tutti vinti: Psicologia, Scienze Umane, Psicologia sociale, Filosofia e Scienze dell’Educazione), finalmente “entro di ruolo”, a Soveria Mannelli (Cz), al compimento del mio 60° anno di età! Concedetemi ora questa piccola gratificazione personale: Nel 2000 l’attività presso la Casa circondariale di Catanzaro come esperta di Formazione si è conclusa durante il Giubileo delle carceri e l’esposizione pubblica delle attività (anche artistiche) dei detenuti minori, organizzata dalla Direttrice, Psic. Serenella Pesarin in collaborazione con l’Associazione INFAP Onlus, di cui ero pesidente). Dalla primavera 2008, per alcuni mesi fino all’anno successivo, ho dovuto elaborare la mia crisi post-accademica. Ne sono uscita senza aiuto psichiatrico e senza alcun rancore, se non con un personale “ravvedimento” per essere una persona che crede fortemente nel potere degli Ideali (e dopo Marx non più di tanto nelle ideologie), realizzando che “la realtà non è poi così regolare” come sembra. Nel 2011 la discussione della Tesi in Counseling mi ha aiutato a superare la caduta degli “Idola”, alimentando in me nuove energie e motivazioni. Si era concluso un lungo ciclo di esperienze, dal quale tuttavia ho imparato alcune cose fondamentali: - I retroscena degli incarichi professionali (pubblici e privati) - I risvolti psicologici ed antropologici legati al confinamento dei detenuti minori e Td,costretti in Comunità e Case famiglia, alcuni dei quali ho poi ritrovato, maggiorenni, come allievi durante il mio Tutoring dei Corsi di Formazione Area marginalità e devianze (Ministero Giustizia e Politiche Sociali). - I loro problemi, la storia delle loro famiglie, la sofferenza e la voglia di riscatto, il confinamento e l’incapacità di sopravvivere autonomamente al di fuori delle comunità. - Ho imparato quanto sia importante la capacità di adattamento in una società complessa - Più di ogni altra cosa, ho imparato la “Resilienza”, non come concetto ma come azione sociale. Credo anche di avere acquisito la capacità di svolgere un lavoro di auto-consapevolezza sulla mia pelle, che probabilmente ha cambiato per sempre anche il mio concetto di “evoluzione”.

Nella Scuola Superiore (dove mi sono successivamente “riconvertita”) alcune mie colleghe affermano che io sono una persona che riesce a vedere sempre un lato positivo in tutte le cose, ho pensato sia vero: a Medicina, nell’interazione con centinaia di allievi, molti dei quali già laureati in altre discipline, ho imparato forse più di quanto abbia insegnato. Il valore dell’esperienza non è l’evidenza, ma l’approccio euristico. . .

Milena Manili - Antropologia della salute - Marzo 2020


giovedì 2 aprile 2020

ARABA FENICE



La fenice simboleggia la capacità di risollevarsi dalle più dure sconfitte, ma anche ciò che è più unico che raro.

"Dopo aver vissuto 500 anni, con le fronde di una quercia si costruisce un nido sulla sommità di una palma, ci ammonticchia cannella, spigonardo e mirra, e ci s'abbandona sopra morendo, esalando il suo ultimo respiro fra gli aromi. Dal corpo del genitore esce una giovane Fenice destinata a vivere tanto a lungo quanto il suo predecessore. Una volta cresciuta e divenuta abbastanza forte, solleva dall'albero il nido (la sua propria culla e il sepolcro del genitore) e lo porta alla città di Eliopoli in Egitto, dove lo deposita nel tempio del Sole".

Ovidio, Metamorfosi




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