Nella filosofia occidentale, la maschera è frutto dell'inevitabile
divergenza tra essere ed apparire
Ad una osservazione superficiale, una maschera non può che essere intesa come un travestimento.
Il travestimento è qualcosa che non appartiene all'uomo naturalmente, ma che si assume per un deliberato scopo o per una motivazione indotta. Nell'uomo moderno questo travestimento viene assunto per combattere uno stato di paura e di debolezza. Tale paura ha messo radici nella complessa stratificazione socio-culturale, ma anche nella proliferazione del sapere scientifico; per diversi aspetti, entrambe producono finzione e simulazione, nonché desiderio di apparire come conviene nella vita di società, assumendo modalità di adattamento ritenute plausibili, anzi realistiche, ma che in realtà sono solo illusorie.
Se la realtà viene vissuta illusoriamente, al contrario la verità viene vissuta nel profondo dell’animo umano.
La filosofia contemporanea, dopo Schopenhauer, ritiene, sostanzialmente, che l'individuo in condizioni di vita socialmente evolute sia indotto ad illudersi, indossando quella maschera che chiama "Io", mentre la verità dell’essere umano risponde ad una condizione antropologica primaria, irriducibile all’egotismo.
Nelle tribù dell’Africa occidentale, la maschera è un “simulacro” ovvero rappresentazione di una divinità; in determinate culture la maschera attribuisce, a colui che la indossa, un potere divinatorio. Nella nostra società essa assume una funzione meno celebrativa, più sociale e, forse, più mediatica.
Tornando alla nostra tradizione filosofica ed antropologica, non possiamo che constatare come la maschera, una volta indossata, diventi un veicolo di mediazione, tra l’identità individuale e quella collettiva, un magico strumento che, nel contempo, nasconde e rivela. La costruzione di una maschera, in fondo, non è altro che la ri-produzione di un emblema, di un oggetto o prodotto, che può servire a farsi ri-conoscere in quanto personaggio, ma raramente serve a farsi conoscere come “persona”.
Numerosi sono, a tale proposito, gli spunti letterari (da L.Pirandello a B. Meroni, ma anche la Commedia dell’arte) e quelli filosofici (dai Sofisti a Nietzsche, Freud, Jung). Nella prospettiva socio-antropologica (M. Mead, L. Moreno) il mascheramento riveste una parte importante nei “giochi di ruolo”, relazioni simulate da cui gli individui possono uscire trasformati, ovvero indotti ad una costante ri-negoziazione delle loro identità sociali.
Il Counseling aiuta l’individuo
a diventare persona, sviluppandone le capacità
relazionali, anche attraverso la mediazione artistica
a diventare persona, sviluppandone le capacità
relazionali, anche attraverso la mediazione artistica
Il Counseling relazionale, incentrato sulla persona del cliente, si fa interprete dei suoi bisogni affettivi, emotivi, interattivi. Tale approccio non viene inficiato, al contrario viene arricchito, dall’utilizzo delle tecniche artistiche. Il counselor relazionale attinge comunque alla “triade rogersiana delle qualità” da utilizzare nel setting, allo scopo di agevolare il cambiamento della persona in condizioni di bisogno, ma si serve dello strumento creativo per rimuovere alcuni ostacoli. In primo luogo, l’attenzione al processo creativo permette di alleviare quella tensione che spesso si lega all’idea del cliente di subire un’azione prettamente terapeutica da parte del counselor. Il laboratorio creativo è infatti, principalmente, mirato all’evoluzione del rapporto umano, interpersonale, tra counselor e cliente, tanto da permettere che il cliente possa utilizzare tale approccio per altre situazioni vissute, ampliando il proprio schematismo mentale, abbracciando una nuova prospettiva personale. Attraverso l’arte tutto diventa più naturale, la stessa pratica artistica assume un valore relazionale, proprio per il fatto di saper focalizzare la situazione presente: la condivisione empatica di un momento vissuto guida e gratifica la relazione stessa, consentendo alla persona sofferente un’evoluzione positiva del proprio potenziale umano. Il dialogo intra-personale utilizza spesso un linguaggio non verbale, che sviluppa emozioni, aumenta l’autostima, induce comportamenti positivi verso gli altri.
Dai filtri comunicativi agli sbocchi esistenziali
A questo punto, mi sembra opportuno approfondire l’antitesi, evidente quanto necessaria, tra essere ed apparire, personaggio e persona. Il fulcro dell’espressione artistica è spesso dovuto ad una ricerca di quella autenticità, che si trova in una dimensione profonda dell’essere e che, perciò, richiede una sorta di auto-esplorazione, un’operazione antropo-archeologica che porti alla luce quello che è, comunque e sempre, un tesoro nascosto.
Lo schermo (filtro, barriera, o maschera) che si interpone tra noi e la realtà, è spesso, sostanzialmente, la concomitante causa-effetto di un disturbo comunicativo, che si rivolge sia verso l’interno di sé stessi (lo scambio intrapersonale) che verso l’esterno (la capacità di rapportarsi col mondo esterno), con grandi difficoltà nell’interazione umana. L’Art Counseling offre oggi la possibilità di intervenire per fronteggiare queste problematiche.
L’esperienza professionale da me praticata nel corso degli anni (vedi Nota 1) avvalora la mia convinzione che la maschera non sia soltanto un oggetto o un espediente, ma che essa rivesta una funzione mediatrice più importante di quelle finora attribuitele. E’ certo che bisogna guardarsi da un facile attaccamento feticistico, ed essere capaci di interpretare la maschera per la sua valenza simbolica, la sua efficacia nei setting di intermediazione o di transfert con il cliente. L’utilizzo della maschera nell’Art Counseling mette in gioco il rapporto tra operatore e cliente, rendendo possibile un atteggiamento empatico, che parte dal “sintonizzarsi sull’onda emotiva” che la maschera rappresenta per il cliente, e raffrontarla ai “caratteri idealtipici di personalità”, sia prevalenti che carenti, nel soggetto. L’efficacia può essere scambievole.
L’obiettivo, da non perdere di vista è, evidentemente, quello di smussare le parti fossili della personalità (blocchi emotivi), per smascherare la linfa vitale sottostante (disponibilità emozionale), rendendo più fluida la capacità di comunicazione spontanea del cliente: dapprima verso sé stesso, poi verso l’interlocutore, ed infine verso il mondo esterno.